IL VICE PRETORE ORDINARIO
   Ha  pronunciato,  in  data  2  dicembre 1996, la seguente ordinanza
 nella causa, iscritta al n. 2886/19/91 del  r.g.a.c.,  tra  la  Ideal
 Food  di  Russo  Giuseppina  e  C. s.a.s., rappresentata e difesa dal
 dott. proc. Giuseppe Sartorio, presso il quale elett.te domicilia  in
 Napoli,  alla via Tasso n. 169, giusta procura a margine dell'atto di
 citazione, attrice, contro il comune di Procida, in persona  del  suo
 sindaco  pro-tempore,  rappresentato  e difeso dal dott. proc. Enrico
 Scotto di Carlo, presso il quale elett.te domicilia in Procida,  alla
 via  G.  da Procida n. 42, giusta procura a margine della comparsa di
 costituzione e risposta ed in forza delle delibere di g.m. nn.    348
 del 5 dicembre 1991 e 106 del 2 luglio 1996, convenuto.
   Va  premesso  in  fatto  che,  con  sentenza  n. 317/92, passata in
 giudicato (come da attestazione del cancelliere del 19 ottobre 1992),
 la  p.a.     convenuta  fu  condannata  al   pagamento,   in   favore
 dell'attrice,  di  una  somma  per  capitale  ed interessi sino al 20
 maggio 1992, giorno anteriore all'entrata in vigore del decreto-legge
 n. 289/92, poi non convertito in legge, contenente - sotto l'art.  30
 -  una  prima,  ma in parte diversa, versione del vigente art. 81 del
 decreto legislativo n. 77/95; la lite e'  in  ragione  della  domanda
 attorea  di  condanna  della  convenuta  al pagamento degli ulteriori
 interessi  e  rivalutazione  monetaria (dal 21 maggio 1992) al saldo.
 Dall'esame degli atti, risulta che il comune di Procida, con delibera
 n. 7 del 10 gennaio 1991, approvo' il piano di risanamento ex art. 25
 legge n. 144/89; che il credito vantato  dall'attrice  non  e'  stato
 ammesso alla massa passiva del piano di estinzione (oggi, distinto in
 "rilevazione"  ed  "estinzione");  che, anzi, l'ente ha espressamente
 considerato che non  potesse  esere  inserito  nella  predetta  massa
 passiva,  stante  il disposto dell'art.   21 legge n. 68/93 (oggi, 81
 decreto legislativo n. 77/95), giusta nota del 12 ottobre 1993, prot.
 n. 11037, in atti.
   Nelle more della causa entro' in vigore la legge n. 68 del 1993, di
 conversione  del  decreto-legge  n.  8/93  che,  all'art.  21,  cosi'
 testualmente  disponeva: "In deroga ad ogni altra disposizione, dalla
 data di deliberazione del dissesto i debiti  insoluti  non  producono
 piu' interessi, rivalutazioni ed altro ...".
   A  tale  legge,  segui'  il  d.P.R.  n. 378 del 24 agosto 1993 che,
 all'art.   6, comma V, lett. g),  prescriveva:  "sono  esclusi  dalla
 massa passiva
  ..  interessi  moratori  o  corrispettivi  e rivalutazioni monetarie
 maturate dopo  la  data  di  deliberazione  del  dissesto,  interessi
 moratori o corrispettivi calcolati su altri interessi".
   Va  brevemente osservato che la norma citata (art. 21) fu  ritenuta
 sospetta di incostituzionalita' da piu'  giudici  remittenti  (T.A.R.
 Puglia  19  maggio  1993  e  pretura  Napoli,  sezione  distaccata di
 Pozzuoli, 9 ottobre 1993), ritenendosi che la stessa  "escludesse  la
 capitalizzazione  degli  interessi e della rivalutazione per il tempo
 successivo alla  deliberazione  del  dissesto,  non  diversamente  da
 quanto  si  ha nelle procedure concorsuali (art. 55 legge fall.)", da
 cui:  a)  un  primo  sospetto,  sul  piano  generale,  non  potendosi
 ammettere  che  una p.a.   possa mai trovarsi in istato di insolvenza
 definitiva ed essere per tale ragione assoggettata ad  una  procedura
 concorsuale;  b)  un  secondo,  sul  piano  piu'  specifico,  per  la
 violazione degli artt. 2, 3 e 53 Cost. (T.A.R. Puglia 19 maggio  1993
 in Gazzetta Ufficiale n. 6, serie speciale del 1994).
    La  Corte  costituzionale, con la pronunzia n. 242 del 9-16 giugno
 1994, considero':
     a) che la censura, mossa sul  piano  generale,  fosse  infondata;
 sottolineo',   al  riguardo,  che  la  norma  avesse  l'attitudine  a
 caratterizzare  legittimamente  un   tertium   genus   di   procedura
 concorsuale  diretta al risanamento dell'ente pubblico che "ancorche'
 dissestato, non puo' cessare di esistere  in  quanto  espressione  di
 autonomia locale" (valore costituzionalmente tutelato); richiamo' sul
 punto  i  principi  espressi nella sua precedente sentenza n. 155/94,
 con la quale aveva  definito  "mera  questione  esegetica  -  rimessa
 all'interpretazione   della   giurisprudenza  -  quella  della  sorte
 dell'eventuale parte non soddisfatta dei  crediti  ammessi";  con  la
 pronunzia n. 242/94, invece, ritenne la legittimita' della norma - ma
 con  espresso riferimento al solo diritto del creditore di richiedere
 il pagamento degli accessori (interessi  e  rivalutazione)  maturati,
 per  crediti  ammessi al riparto - dopo la deliberazione di dissesto;
 considero' che "essa lascia integra la facolta' per il  creditore  di
 azionare  tali  diritti  nei  confronti  dell'ente pubblico una volta
 tornato in bonis";
     b)  che anche la censura piu' specifica fosse parimenti infondata
 perche' "il blocco di rivalutazione ed interessi  in  pendenza  della
 procedura  concorsuale  trova  giustificazione  nello specifico delle
 procedure concorsuali (art. 55 legge fall.),  in  quanto  finalizzato
 alla  realizzazione  della  par  condicio  ed  all'impedimento  di un
 ulteriore deterioramento della condizione patrimoniale del  debitore.
 E  trova  inoltre  fondamento  nella  considerazione  che,  nel tempo
 successivo  all'apertura  della   procedura   concorsuale,   non   e'
 configurabile  un  inadempimento ne' a carico del debitore, ne' tanto
 meno a carico degli organi della procedura, questa ponendosi  proprio
 come  strumento  sostitutivo dell'adempimento"; ritenne, inoltre, che
 quanto "alla ritenuta definitivita' della cd.  cristallizzazione  del
 credito",  sebbene  nei  confronti  di  una p.a. dissestata, fosse da
 "escludersi che sussista tale denunziata violazione del principio  di
 eguaglianza",  in  quanto "la corretta lettura della norma censurata,
 compiuta tenendo presente il quadro normativo complessivo  risultante
 anche  dalle disposizioni regolamentari dettate dal d.P.R. n. 378 del
 1993, conduce a ritenere  errata  l'opinione  ...  circa  la  pretesa
 definitivita'  della  lamentata cristallizzazione dei crediti. L'art.
 6, comma V, lett. g) del citato  regolamento,  nel  darsi  carico  di
 precisare  che  sono esclusi dalla massa passiva interessi moratori o
 corrispettivi e rivalutazioni monetarie maturate dopo la  data  della
 deliberazione   del  dissesto,  interessi  moratori  o  corrispettivi
 calcolati su altri interessi, lascia  chiaramente  intendere  che  il
 legislatore  postula  il  maturare  sia della rivalutazione che degli
 interessi  anche  successivamente   all'apertura   della   procedura,
 limitandosi  ad  escludere  la  opponibilita' alla procedura stessa e
 l'ammissibilita' alla massa passiva, ma lasciando integra la facolta'
 per il creditore di azionare tali  diritti  nei  confronti  dell'ente
 pubblico una volta tornato in bonis".
   Dopo  le citate pronunzie della Corte costituzionale, e' entrato in
 vigore l'art. 81 del decreto legislativo n. 77 del 25  febbraio  1995
 che  ha  riprodotto, in parte qua, il disposto del precedente art. 21
 (della legge n. 68/93 gia' citata), abrogato in forza dell'art.  123,
 lett. g) del decreto legislativo n.  77/95,  in  uno  con  "tutte  le
 disposizioni  non compatibili con i principi e le norme contenute nel
 presente decreto legislativo".
   E' poi entrato in vigore il decreto legislativo    n.  336  dell'11
 giugno 1996, confermativo delle abrogazioni gia' disposte nei termini
 riportati,  che  ha introdotto il IV comma dell'art. 81 citato, che -
 oggi - cosi' testualmente dispone: "alla data della deliberazione  di
 dissesto e sino all'approvazione del rendiconto di cui all'art.  89 i
 debiti  insoluti  a  tale data e le somme dovute per anticipazioni di
 cassa gia' erogate non producono piu' interessi ne' sono  soggetti  a
 rivalutazione monetaria ...".
   Dopo  le  sentenze  nn.  155 e 242 del 1994 della Corte, chiare nel
 senso di far ritenere che i  crediti,  lungi  dal  "cristallizzarsi",
 continuavano  a  produrre  interessi  e  rivalutazioni (anche dopo la
 delibera di dissesto e con il solo limite della loro  inopponibilita'
 alla  procedura  concorsuale),  il  legislatore  ha  disposto, con il
 citato art. 81, che tali  accessori,  invece,  non  maturano  per  il
 periodo  "dalla data di delibera del dissesto e sino all'approvazione
 del rendiconto ...".
   La  presenza  di  tale disposizione ed il rilievo che risulta - con
 l'art. 89, XI comma del novellato  decreto  legislativo  n.  77/95  -
 specificamente  riprodotto  il  disposto  di  cui  ai precedenti - ma
 abrogati - artt. 21 della legge n. 68/93 e 88, VII comma, del decreto
 legislativo  n.  77/95,  prima  formulazione,  (secondo   cui   "dopo
 l'approvazione del piano di estinzione ... non sono ammesse richieste
 relative  ad  ulteriori  crediti  nei  confronti  dell'ente")  fanno,
 dunque, risorgere ragionevolmente il  sospetto  della  illegittimita'
 della  norma, vuoi sul piano generale, vuoi su quello piu' specifico,
 attualizzando le ragioni di censura gia' avanzate, ma respinte  -  al
 tempo  -  dalla  Corte  con le gia' citate sentenze nn. 155 e 242 del
 1994.
    Delle due, cioe', l'una: o la norma  (art.  81,  ult.  comma,  del
 decreto  legislativo n. 77/95, nel testo vigente) non avendo innovato
 il sistema, e' del tutto superflua e priva di ratio  giustificatrice,
 come pero' e' difficile poter ritenere tanto specifico risulta essere
 stato  l'intervento  del  legislatore,  cui  non  pare  siano neanche
 sfuggite le osservazioni della stessa Corte, di cui alle sopra citate
 pronunzie;     ovvero     prescrive,      effettivamente,      quella
 "cristallizzazione" dei crediti, del tutto esclusa dalla Corte con la
 sentenza n. 242 del 1994.
   Da  qui,  plurimi  sospetti  di  incostituzionalita'  della  norma,
 seguiti dalla formulazione di alcuni quesiti,  che  vengono  proposti
 alla  Corte,  nella  sequenza  logica  di  cui  infra, sol perche' il
 rigetto del dubbio di costituzionalita' in ordine al  primo  potrebbe
 rendere  irrilevante il vaglio degli altri da parte del giudice delle
 leggi.
   La necessita' di  tentare  di  "conservare"  la  norma,  induce  lo
 scrivente  ad  esporre  prima  la censura specifica e poi quelle piu'
 generali,   per   la   maggiore   gravita'   che   si   collegherebbe
 all'accoglimento di queste ultime.
   La  norma  (art. 81, IV comma del decreto legislativo n. 77/95, nel
 testo vigente) - abrogatrice certamente  delle  precedenti  con  essa
 incompatibili,  tra  cui  l'art.  6,  comma V, lett. g) del d.P.R. n.
 378/93 - ipotizza, come si diceva, la "cristallizzazione" dei crediti
 diversamente,  dunque,  da  quanto  ritenuto   dalla   stessa   Corte
 costituzionale, con la sentenza n. 242 citata, secondo cui - invece -
 si  limitava ad "escludere l'opponibilita' alla procedura concorsuale
 e  l'ammissibilita'   alla   massa   passiva,   degli   interessi   e
 rivalutazioni,  maturati  dopo  la  delibera  di  dissesto, lasciando
 integra la facolta' per il creditore di  azionare  tali  diritti  nei
 confronti dell'ente pubblico una volta tornato in bonis".
   La  norma  prevede  la "cristallizzazione" dei crediti e preclude -
 dunque - la capitalizzazione degli interessi  e  della  rivalutazione
 monetaria,  per quanto limitatamente al periodo di tempo tra la "data
 della  deliberazione  di  dissesto  e   sino   all'approvazione   del
 rendiconto  di  cui  all'art.  89",  senza  "lasciare  integra alcuna
 facolta'" per i creditori di  azionare  tali  diritti  nei  confronti
 della p.a. dissestata, una volta tornata in bonis.
   Per  tale  interpretazione  continua  - necessariamente - a deporre
 l'art. 89, comma XI,  del decreto legislativo 77/95 (testo  vigente),
 secondo  cui:  "dopo  l'approvazione  del piano di estinzione ... non
 sono ammesse richieste relative ad ulteriori  crediti  nei  confronti
 dell'ente". Proprio tale norma finira' per costituire (vedi infra) il
 riferimento  specifico  del  secondo  -  ma  piu'  generale e grave -
 profilo  di censura, in quanto alla stessa si collega, indubbiamente,
 il sospetto di effetti  ben  piu'  traumatici.  Il  citato  XI  comma
 dell'art.   89, infatti, in modo piu' apparentemente deciso, ma certo
 non  sufficientemente   chiaro,   pare   evidenziare   una   volonta'
 legislativa  mirata  alla  definitiva  compressione  del  diritto  di
 credito  che,  una  volta  ammesso  alla  massa   passiva,   ma   non
 soddisfatto, non si riespanderebbe piu', si' da non poter piu' essere
 opposto  alla p.a. tornata in bonis. Le analisi in corso della stessa
 norma, sotto i delineati  profili,  riguardano  inoltre  anche  tutti
 quegli  altri  crediti - magari pure sorretti da giudicati - che, per
 le ragioni piu' diverse, non sono stati ammessi alla massa passiva e,
 dunque, a partecipare al riparto. Per tali  crediti  -  ivi  compreso
 quello  dell'attrice - nulla la norma dispone circa la loro sorte; in
 particolare, non dice se i predetti crediti siano o  meno  opponibili
 alla  p.a.  in  bonis;  evenienza  quest'ultima,  che  sola  potrebbe
 giustificare l'utilita' di pronunce cognitive di condanna.
   L'interpretazione della predetta norma, laddove dovesse condurre  a
 ritenere  l'inopponibilita'  dei crediti (ammessi e non soddisfatti o
 addirittura non ammessi) anche nei confronti  della  p.a.  in  bonis,
 rischierebbe,   infatti,  di  compromettere  anche  l'utilita'  delle
 pronunzie, con una serie di riflessi anche sui giudizi di  cognizione
 e  non  solo,  in  prospettiva,  "vanificando il futuro comando"; sul
 punto,  infatti,  si  puo'  brevemente  osservare  che  la  questione
 dell'"utilita'  della  pronunzia" non puo' certo dirsi che si pone in
 vista di un evento futuro ed incerto (quale quello  della  formazione
 del  titolo  esecutivo)  e  che,  quindi,  collegandosi  ad  un fatto
 meramente ipotetico,  la  questione  di  incostituzionalita'  sarebbe
 anticipata  e,  come tale, non rilevante, ai fini dell'ammissibilita'
 al giudizio della Corte. La rilevanza la si coglie - specificamente -
 sotto  il  profilo  dell'art.  100  cpc:    e'  ovvio,  infatti,  che
 qualsivoglia domanda di condanna (ma anche di solo accertamento) - se
 vi  fosse  consapevolezza  della  inutilita' della sentenza - sarebbe
 destinata al rigetto, assumendo carattere meramente accademico. Ed e'
 pure  altrettanto  vero  che,  diversamente   opinando,   un   numero
 incalcolabile  di giudizi cognitivi, magari gia' totalmente istruiti,
 se non addirittura  in  fase  di  decisione,  sarebbero  destinati  a
 concludersi  sterilmente  con pronunce del tutto inutiliter date, con
 ingiustificati  costi  a  carico  non  solo  delle  parti  ma   anche
 dell'amministrazione giudiziaria, in spregio ai principi che regolano
 il  buon  andamento della p.a. (art. 97 Cost.) e della strumentalita'
 necessaria del processo, destinato - invece -  ad  assicurare  a  chi
 domanda  giustizia  "tutto quello e proprio quello che gli spetta sul
 piano del diritto sostanziale" (ex art. 24 Cost., con riferimento  al
 disposto di cui all'art. 2907 cc.).
   Per  le  espresse ragioni e per i motivi che seguiranno, appare non
 manifestamente infondata  la  questione  di  incostituzionalita'  del
 vigente  art.  81,  IV  comma,  del decreto legislativo n. 77/95, per
 violazione degli artt. 2, 3, 23, 24, 53, 97 e 113 della Costituzione,
 in correlazione con gli artt. 1282, 1284, 1224, 2907 del  c.c.  e  55
 della  legge  fall., anche con riferimento all'art. 15 della legge n.
 1404 del 1956.
    La norma censurata, infatti, concreta, rispetto  ai  creditori  di
 altri  soggetti,  sia  privati che pubblici, un trattamento deteriore
 che,  alla  luce  dei  principi  costituzionali,  non  pare   affatto
 giustificato.
   Ne'  la  natura  pubblica  del  soggetto  passivo,  ne' lo stato di
 dissesto possono di per se' giustificare la derogatoria e restrittiva
 disciplina imposta agli accessori del  credito  dall'art.  81;  norma
 questa  che,  bloccando  interessi  e rivalutazione, consente al mero
 decorso del tempo di incidere negativamente sulla prestazione  dovuta
 ai  creditori  dell'ente  dissestato, sottoponendoli ad un sacrificio
 patrimoniale che vede esenti sia i creditori degli enti locali non in
 dissesto, sia i creditori in genere degli altri soggetti  pubblici  e
 privati.      Ne'   sarebbe   possibile   imporre  questo  sacrificio
 patrimoniale ai creditori dell'ente locale, senza violare  il  canone
 costituzionale  che,  alla  luce dei principi di solidarieta' (art. 2
 della Cost.), di capacita' contributiva (art. 53)  e  di  uguaglianza
 sostanziale  (art.  3  Cost.),  vuole che le prestazioni patrimoniali
 siano imposte ai singoli con criteri che consentano un equo  concorso
 alla spesa pubblica.
   Il  pagamento,  da  parte  di  una  p.a., inoltre, e' "atto dovuto"
 (Corte cost. n. 138/1981); "effetto ineludibile" della sua attivita';
 "scopo  istituzionale"  di  questa,  cui  non  puo'  mai  collegarsi,
 pertanto,  la  responsabilita',  non  solo di uno stato di definitiva
 insolvenza, ma anche solo di una semplice  insolvenza  (vedi  infra).
 Non e' tutto:  se e' senza dubbio condivisibile sostenere che un ente
 pubblico "ancorche' dissestato non puo' cessare di esistere in quanto
 espressione  di autonomia locale" (rivedi la sentenza n. 155/94 della
 Corte), e' altrettanto vero, pero', che, rientrando il pagamento  tra
 i  suoi  compiti istituzionali (ed al riguardo, non e' un caso che si
 dica, senza alcuna contraddizione, che allo stesso  "deve  provvedere
 spontaneamente"),  proprio  il  mancato  pagamento, allora - piu' che
 l'assoggettamento a procedura concorsuale - compromette lo scopo  per
 il quale "e'" tale tipo ente.
   La  prevista  "cristallizzazione" dei crediti, nei confronti di una
 p.a. dissestata, consolida  posizioni  confliggenti  con  i  principi
 espressi,  facendo degradare la p.a. al rango di un soggetto privato:
 se l'inadempienza e' un fatto illecito, non  e'  tollerabile  che  la
 p.a.   sia  protagonista  (rectius:  possa  essere  istituzionalmente
 protagonista) di tale fatto; e cio' ancor piu' ove si  consideri  che
 la  stessa  e'  -  sempre  istituzionalmente  -  preposta non solo ad
 evitare tali fatti, ma addirittura a garantire che questi non vengano
 commessi.
   Per tali ragioni, la norma viola gli artt. 2 e  3,  secondo  comma,
 della   Costituzione,  attinenti  alle  garanzie  ed  all'obbligo  di
 rimozione di ostacoli.
   Senonche' l'interpretazione della norma, di  cui  al  quarto  comma
 dell'art. 81, del decreto legislativo n. 77/95, nel testo vigente, in
 combinato  disposto  con il successivo art. 89, XI comma (secondo cui
 "dopo l'approvazione del  piano  di  estinzione  ...  non  sono  piu'
 ammesse  richieste  relative  ad  ulteriori  crediti")  induce pure a
 ritenere - cosi' rivitalizzando, sotto  nuovi  profili  e  con  nuovi
 motivi,  le  censure gia' rimesse alla Corte e da questa respinte con
 le sentenze nn. 155 e 242 citate - che la  volonta'  del  Legislatore
 non  fosse  stata  prima  e non sia ancora oggi solo quella di mirare
 alla "cristallizzazione" dei crediti, nei limiti fissati dalla  Corte
 con la citata pronunzia n. 242 (ossia nei limiti dell'inopponibilita'
 alla  procedura  concorsuale), ma altra di natura ben diversa: vale a
 dire  quella  di  "azzerare"  il diritto di credito non soddisfatto a
 seguito del riparto. Tale volonta' - non va taciuto - pare  inserirsi
 in   un   ben  piu'  ampio  disegno,  proteso  -  non  si  sa  quanto
 consapevolmente - a comprimere il diritto  soggettivo  di  credito  e
 quello   di   difesa.  Non  sono,  forse,  un  caso  le  innumerevoli
 disposizioni in tema di limitazioni  dell'azione  e  dell'esecuzione.
 Basti  pensare  all'individuazione dei fondi a specifica destinazione
 definiti impignorabili, per preservarli dalle azioni  dei  creditori;
 alla  sospensione  delle  procedure  esecutive, ex art.   24 legge n.
 144/89 alla prescrizione, ex art.  113  del  decreto  legislativo  n.
 77/95,  di  inammissibilita'  delle  esecuzioni presso terzi soggetti
 diversi dal Tesoriere, con l'instituzione, dunque, di un criterio  di
 discrimine  addirittura  soggettivo,  mentre  si sa che cio' che puo'
 meritare tutela e' il solo "bene" colpito dall'azione esecutiva e non
 certo  il   debitore;   all'individuazione   generica   dei   servizi
 indispensabili   (decreto   ministeriale  28  maggio  1993),  diretta
 anch'essa a preservare le risorse della p.a., dalle  aggressioni  dei
 creditori;  all'abrogazione dell'art. 11 della legge n. 68/93), nella
 parte in cui prevedeva una serie di condizioni di rispetto perche' la
 p.a. potesse far  valere  l'impignorabilita'  (vedi,  sul  punto,  la
 sentenza  n.  285  del  1995  delle Corte, di cui piu' specificamente
 infra); alla regola dell'impignorabilita'  "rilevabile  di  ufficio",
 cui  accede  un  irrazionale  ed imprevedibile conferimento di poteri
 cognitivi al g.e. in un tipo di  processo,  quale  quello  esecutivo,
 dove  - in difetto di contraddittorio - non puo' essere esercitata la
 difesa (art. 113  del  decreto  legislativo  n.    77/95,  nel  testo
 modificato  dal  decreto  legislativo  n. 336/96); all'esclusione del
 vincolo pignoratizio (art. 113 citato,  IV  comma),  con  conseguente
 pregiudizio  della  tutela dell'esecuzione (presso terzi), sicche' si
 puo' anche giungere a ritenere - plausibilmente - che ci si trova  di
 fronte   ad   un   fenomeno  nuovo,  estraneo  all'intera  disciplina
 codicistica e contrario ai principi piu volte  ribaditi  dalla  Corte
 (sent.  n.  138  del  1981);  all'estensione  delle regole in tema di
 impignorabilita' anche  all'attivita'  dei  commissari  nominati  dal
 giudice  amministrativo,  in  sede  di  ottemperanza  a  giudicati di
 condanna della p.a.  al  pagamento  di  somme  di  denaro,  ai  sensi
 dell'ultimo  comma  dell'art. 113, gia' citato; alle stesse norme sul
 dissesto,  che  minano  le  azioni   esecutive;   al   piu'   recente
 decreto-legge  n.  513/96,  che  addirittura  sospende  le  azioni di
 cognizione in corso e preclude la proposizione di quelle nuove.
   E, ben al di la' dal dire che le norme in materia (tra  cui  alcune
 di  quelle teste' indicate) risultano pure tanto tortuose da lasciare
 quanto meno perplesso l'interprete, spesso invece colto  impreparato,
 o  costretto  in  errore,  come e' accaduto certamente nel caso della
 sentenza n. 285 del 29 giugno 1995 alla stessa  Corte  costituzionale
 (in occasione della dichiarazione di illegittimita' dell'art. 1 della
 legge  n.  67/93,  allorquando,  in  sede  di interpretazione di tale
 norma, l'ha ritenuta illegittima "in esito alla comparazione  con  la
 disciplina  parallela  dell'art.  11  della legge n. 68/93", non piu'
 vigente - pero' - al tempo della citata pronunzia), sorge il dubbio -
 fondato a parere di chi scrive - che la strada sin ad  oggi  percorsa
 dal   legislatore  sia,  allora,  in  direzione  esattamente  opposta
 rispetto a  quella  tracciata  dalla  Corte  costituzionale,  con  la
 sentenza  n. 138 del 1981, tanto da evidenziare una retrocessione del
 sistema  ad  epoca  anteriore  alla  predetta pronunzia; e tutto cio'
 aggravato da una condizione di piu' profonda incoerenza -  sul  piano
 generale  -  del  sistema  stesso  che, se da un lato, percorrendo la
 strada opposta a quella segnata dalla Corte, mira ad  una  protezione
 ingiustificata  delle  risorse  della p.a., allo scopo di preservarle
 dalle aggressioni dei creditori, dall'altro, consente che  le  stesse
 vengano,  pero',  sottratte  dai  Tesorieri  (nel  caso,  degli  enti
 locali), soggetti istituzionalmente autorizzati alle anticipazioni e,
 conseguentemente, aventi titolo a  lucrare  cospicui  interessi,  con
 chiara   funzione  corrispettiva.    Senza  considerare  che  proprio
 l'obbligo di pagamento di  tali  interessi  e'  la  causa  principale
 dell'indebitamento,  perfettamente  identificabile con quella che, la
 piu' parte delle volte, conduce un ente locale al dissesto.
   Quadro  generale  questo   che   disvela,   dunque,   la   volonta'
 legislativa,  dalla  quale  non  si  puo' certo prescindere quando le
 norme vengono sottoposte al vaglio dell'interprete.
   Cio' posto, considerato che, con le norme di cui agli artt. 81 e 89
 citati,  ovviamente  nelle   parti   in   questione,   si   prefigura
 l'inadempienza  definitiva  della  p.a.,  si  osserva:  non si e' mai
 sospettato (anzi, e' stato sempre escluso) che un ente  pubblico  non
 economico,  dotato  di autonomia potesse, pur trovandosi in uno stato
 di   impotenza   patrimoniale   ad   adempiere    integralmente    ed
 immediatamente  le  proprie  obbligazioni,  essere  soggetto  ad  una
 esecuzione collettiva, fondata sul presupposto di  un  suo  stato  di
 definitiva insolvenza; neppure si e' mai ipotizzato, per tale tipo di
 ente,  il  c.d.  stato  di definitiva insolvenza o l'insolvenza verso
 anche uno soltanto dei suoi creditori (privati o pubblici), ossia  la
 insolvenza semplice.
   La ratio di tali principi si collega alla logica - gia' evidenziata
 -  che,  se l'inadempienza e' un fatto illecito, che lede l'interesse
 del creditore insoddisfatto, non e'  tollerabile  che  una  p.a.  sia
 proprio  essa  protagonista  di un tal fatto, visto che la stessa e',
 poi, pure preposta istituzionalmente ad evitare che vengano  commessi
 fatti  illeciti  e,  per  giunta,  a garantire che questi non vengano
 commessi.
   Storiche  ragioni,  sempre  condivise,  tollerano   il   definitivo
 inadempimento  solo nei confronti dell'imprenditore. Ben vero, l'art.
 2093 del c.c.  prevede che l'impresa possa anche essere esercitata da
 enti pubblici.  E' da escludere, pero', che enti, come le province, i
 comuni e lo Stato, possano mai acquistare la qualita' di imprenditori
 (commerciali).
   L'"esercizio"  (per  comuni,  province,  etc.)  e',  infatti,  solo
 un'attivita' accessoria, rispetto a quella principale da essi svolta,
 inerente  al  fine  istituzionale  pubblico  che  perseguono;  ed  e'
 giustificato  dall'esigenza  di  assicurare  alla  collettivita'   la
 prestazione  di  servizi di sostanziale importanza per l'economia del
 paese o anche dall'opportunita' di  assicurarsene  il  profitto  che,
 scevro  dal  rischio  economico  (inerente  ad  ogni  impresa  per il
 carattere di monopolio con cui e' effettuato), costituisce un gettito
 patrimoniale certo, da detti enti utilizzato per il conseguimento dei
 loro fini generali.
   Lo Stato (al pari di un ente locale), infatti, allorche'  esercita,
 se  cosi'  si puo' dire, un'impresa non assume veste di imprenditore,
 che contrasterebbe con la sua indole.
   Le  norme (artt. 81 e 89) in esame, allora, collidono con i cennati
 principi e con quelli espressi in materia in numerose decisioni della
 Corte costituzionale (tra cui la sentenza n. 138/81); sottraggono  la
 p.a. dalla posizione istituzionale di garante ed assimilano (rectius:
 tentano  di assimilare) addirittura l'attivita' della stessa a quella
 di  un  soggetto,  imprenditore  privato  debitore;  cio'  del  tutto
 ingiustificatamente  e, per giunta, con una serie di privilegi per la
 p.a. che non trovano giustificazioni, tutti sempre censurati  (rivedi
 la  sentenza  n.  138  del  1981)  dalla stessa Corte costituzionale,
 chiamata anche oggi a pronunziarsi (in una materia di fondo,  dunque,
 perfettamente  identica),  oltre  che  dal  supremo  collegio (tra le
 tante, Cass. S.U 18 dicembre 1987 n. 9497; Cass. S.U. 9 marzo 1981 n.
 1299).
   Ripugna, peraltro, alla coscienza giuridica  l'idea  che  una  p.a.
 possa  "dissestare"  (rectius: fallire o liquidare) in senso stretto,
 ossia non  pagare.  A  siffatte  considerazioni,  aggiungasi  che  il
 continuo  gettito  patrimoniale,  in  favore  della  p.a.  costituito
 dall'esercizio  delle  sue  attivita'  e  dalle  entrate   tributarie
 esclude,  d'altro  canto,  che  possa mai rinvenirsi il c.d. stato di
 insolvenza   (definitivo),   tipico   presupposto   delle   procedure
 concorsuali,  cosi' escludendo la prefigurabilita' anche di queste. I
 poteri di coercizione che  la  p.a.  dissestata  puo'  continuare  ad
 esercitare,  per  il  recupero delle entrate (anche tributarie), sono
 del tutto inconciliabili con il rilievo di  uno  stato  di  decozione
 patrimoniale, emergendo - diversamente opinando - l'illogicita' della
 norma, visto che la stessa non potrebbe che giustificarsi se non come
 atto  impositivo, senza ristoro e, come tale, illegittimo anche sotto
 tale profilo.
    Per tali ragioni, da un lato, riguardo alla  verifica  sul  se  il
 sistema costituzionale possa ammettere che un comune possa versare in
 istato  di  insolvenza  definitiva  o,  come  dir  si  voglia, essere
 definitivamente  insolvente  anche  verso  uno  soltanto   dei   suoi
 creditori  (e, dunque, anche sempilcemente insolvente) e, dall'altro,
 riguardo al riscontro della legittimita', sul  piano  costituzionale,
 dell'assoggettabilita' dello stesso ente ad un'esecuzione collettiva,
 fondata   su   quel  presupposto  (insolvenza  definitiva),  si  puo'
 dubitare, piu' che ragionevolmente, che la norma violi gli artt. 2  e
 3  secondo  comma,  della  Costituzione,  attinenti  alle garanzie ed
 all'obbligo di rimozione degli ostacoli, nonche' l'art 41,  attinente
 al   riconoscimento   dell'iniziativa  economica,  di  programma,  di
 indirizzo e coordinamento della iniziativa economica detta, anche con
 riferimento agli artt. 2082 del c.c., 1 del r.d.  16 marzo  1942,  n.
 267 (l.f.) e 15 della legge 4 dicembre 1956 n.  1404.